Soft matter, la ricerca è congiunta
Molti progetti in corso per il Consorzio Interuniversitario, a cui collaborano i laboratori di una ventina di atenei italiani
È un momento di intensa attività e di molteplici progetti in corso per Csgi, il Consorzio Interuniversitario per lo Sviluppo dei Sistemi a Grande Interfase, nato giusto trent’anni fa. Questo consorzio unisce i laboratori di una ventina di Università italiane, per promuovere e coordinare le attività scientifiche in sintonia con i programmi di ricerca nazionali e internazionali nel campo della “soft matter”, una branca della chimica e fisica che esplora le interazioni fra materiali e sistemi complessi. Ma c’è di più: Csgi promuove sinergie tra i laboratori degli atenei, che lavorano nel campo della soft matter, unendo le migliori competenze italiane in questo settore della scienza, con ricadute, dalla medicina alla catalisi, dall’ambiente ai materiali avanzati, quali sistemi per il rilascio controllato farmaci, la medicina rigenerativa o idrogel per ustioni o come lubrificanti di giunzioni ossee, tanto per fare alcuni esempi.
“Cerchiamo di essere utili anche al mondo delle aziende, offrendo loro soluzioni su misura. Per esempio, ci occupiamo di formulazioni, un settore fondamentale per le industrie”, sottolinea Piero Baglioni, professore di Chimica Fisica all’Università di Firenze e presidente del Consorzio. E proprio Baglioni è il responsabile di uno dei più curiosi progetti fra quelli di cui è coordinatore il Csgi, in un campo particolare come quello della conservazione dei beni culturali, chiamato Green Art, finanziato tramite Eu-Horizon Europe, che sta riscrivendo le regole tradizionali della conservazione dei materiali dei beni culturali, riformulando tutti i sistemi attuali in modo green.
“Stiamo sostituendo la chimica del petrolio con una nuova chimica che ha logiche sostenibili, in linea con l’agenda europea del green deal”. In un ambito diverso si muove invece Bow, un altro progetto finanziato nell’ambito di Eu-H2020 e coordinato dal Consorzio (con il coinvolgimento delle Università di Brescia e Firenze), che riguarda l’applicazione dei nanomateriali alla medicina di precisione tramite l’utilizzo di nanoparticelle magnetiche ricoperte da una membrana derivata da vescicole extracellulari. “L’obiettivo - spiega la professoressa Debora Berti - è mettere a punto un chip microfluidico in grado di ‘vestire’ le nanoparticelle sintetiche con una muta ottenuta da vescicole extracellulari, che le protegga e le diriga verso uno specifico organo bersaglio quando sono immerse nel circolo sanguigno. Un’operazione che potrà avere importanti conseguenze in molti ambiti terapeutici”.